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Étienne Klein,=
Il tempo non suona mai due volte,
RaffaeloCortina editore, 2008
Sì, il titolo è un p= o’ banale, come succede tutte le volte che si adoperano centonature troppo fam= ose e pertanto consunte dall’uso. D’altra parte non è= di quei titoli che ingombrano troppo il procedere del saggio, per quanto l’ultimo dei ventidue capitoli si chiuda proprio con quella frase.
L’indubbio interesse per il docente che prenda in mano questo libro risiede senz’altro n= ella appassionata ma narrativamente sobria ricostruzione del dibattito sul secon= do principio della termodinamica e sulla nascita della fisica quantistica. Il punto di vista di Klein è naturalmente lo studio della nozione di reversibilità: il contributo fondamentale di tutto il lavoro dell’autore (specie se letto da non specialisti) è proprio que= llo di spostare l’attenzione da una impossibile definizione postkantiana di tempo alla discussione sul paradosso della reversibilità.
Come mai ci sono fenomeni irreversibili ? Da dove consegue che ci sia una freccia del tempo, vale a dire una asimmetria nella dinamica di alcuni sistemi che noi osserviamo, quan= do invece le equazioni della fisica non ne contemplano affatto ? (…) Il problema riguarda solo l’asimmetria dei processi fisici nel corso del tempo e non l’asimmetria del corso del tempo di per sé.
Eppure è la nostra abitudine, prescientifica e scientifica, di mettere in relazione il corso del tempo con il rapporto di causalità che lega i fenomeni, a fondare la certezza della irripresentabilità degli istanti e quindi della tragica irriversibilità del tempo.
Ma l’irreversibilità è irriversibilità del tempo o dei fenomeni ?
Acquista così gran rilevanza un dibattito di fine ottocento che si ostina però a non spengersi nell’attualità.
(… ) il ritornodi un sistema ad uno stato che ha già conosciuto
nel passato non è strettamente impossibile: sicchè, praticame=
nte,
non si può dire che la reversibilità delle equazioni della
meccanica sia del tutto inattendibile (…) il tempo non è
necessariamente produttore di divenire. Non c’è freccia del te=
mpo
microscopico, ma è il livello macroscopico, ed
esso soltanto, che crea per noi l’impressione che ce ne sia una.
E in effetti è Boltz= mann, l’iconolatra (nel senso d= el privilegiatore di un metodo ipotetico-deduttivo che parte da ipotesi trasformate in “immagini del pensiero” per arrivare dopo alla sperimentazione), a fare la parte del gigante in questa ricostruzione di dibattiti mai conclusi e ad avere la funzione di momentaneo vincitore sulle teorie rappresentate da Ostwald, in attesa dell’avvento del travaglio euristico di Max Planck e della scoperta dei quanti.
Se dunque siamo interessati ad ovviare al problema did= attico della mancanza di prospettiva storica nell’insegnamento delle scienze nella nostra scuola superiore, questo saggio ci aiuta sia perché ci = fa riflettere sul vero senso (che non è detto che sia un senso indicato dalla freccia direzionale) del tempo (riflessione alla base di ogni scelta di diacronia didattica), sia per la chiara esposizione di una discussione a più voci e a più discipline che forse ha fa= tto allontanare definitivamente la riflessione sul tempo da ogni prospettiva kantianamente aprioristica ad un approdo come immagine di un pensiero che va avanti per ipotesi e deduzioni. Si arriva insomma alla genesi storica della teoria dei quanti tramite una trattazione che non è quella tipica dell’osservatore distaccato e obiettivo di fenomeni preteriti, ma que= lla rischiosa e travagliata di un ricercatore che sa di poter trovare all’improvviso un particolare del mondo che esamina che potrebbe mett= ere in crisi la rotaia diacronica sulla quale crede di muoversi senza inciampi.=
Quentin Meillassoux termina dicendo che
diventa una questione controversa pensare il tempo contemporaneamente come
forma della nostra percezione e come ambiente dove emerge la coscienza. La =
sua
argomentazione potrebbe essere riassunta così: pensare le scienze
sperimentali dovrebbe significare pensare anche =
la
loro capacità di conoscere le proprietà di un tempo in seno al
quale ciò che è vivo – e dunque l’uomo –
è passato dal non essere all’essere.
Si può stare comunque tranquilli anche come semplici lettori. Klein sa affascinare il suo lettore stuzzicandolo preventivamente col paradosso quotidiano:
(…) in seno alla retta del tempo, il presente occupa per noi un posto
eccezionale: ci appare perfino unico, radicalmente differente da tutti gli
altri istanti, poiché è quello in cui noi siamo … prese=
nti
! (…) Si pone dunque un interrogativo: perché l’istante
presente, così qualunque sotto il profilo fisico, diventa per noi ta=
nto
particolare ? La sua particolarità gli è intrinseca o gli
proviene da noi ? In altre parole, c’&egra=
ve; un
presente del mondo, oppure ciò che noi chiamiamo il presente
non fa altro che segnare la nostra presenza al mondo ?
Così come c’è = da essere riconoscenti al nostro autore del suo scrupolo filologico, qu= ando ci raccomanda di non cedere frettol= osamente alla illusione di conciliare la frattura apertasi a suo tempo tra Parmenide= e Eraclito: in una pagina e mezzo di buona sintesi collazionante, Klein ci stupisce per come mette al suo posto i frammenti presocratici, che proprio = per quel che obiettivamente dicono sulla nozione di tempo mostrano la loro chia= ra antecedenza nel procedere della riflessione sulla natura rispetto alla magg= iore ampiezza platonica e alla sistematicità fondante aristotelica.